
Nella Liturgia della domenica XVI del Tempo Ordinario la Parola di Dio dà un altro colpo per far penetrare nella nostra coscienza il chiodo della giusta stima della ricchezza. Essa è un bene che deve essere trafficato e condiviso per l’avvento del Regno dei cieli e non deve essere sciupato in maniera egoistica.
Nell’intero Vangelo non ci sono molte esortazioni agli uomini e alle donne perché si amino e formino delle famiglie dato che questo avviene istintivamente anche se poi la vita di famiglia si dimostra tutt’altro che facile.
Ma per la ricchezza l’istinto dell’uomo è attratto da ciò che luccica e da ciò che si tocca come da una calamita irresistibile che solo un forte ideale può vincere e soggiogare. Contadini, artisti, scienziati, sportivi e … credenti si sottopongono a sacrifici e fatiche molto pesanti perché sono persuasi di non perderci e di investire proficuamente una ricchezza concreta ma limitata, in vista di una ricchezza altrettanto concreta ma molto, molto più grande.
Ed è per questo che il Vangelo moltiplica le esortazioni e annuncia che il Regno dei cieli è come un campo nel quale è nascosto un tesoro o come una perla d’ineguagliata bellezza che per essere acquistati richiedono che un uomo accorto non tema di vendere tutto ciò che possiede. Per questo Gesù insegna che un modo importante per far fruttificare ciò di cui si dispone è condividerlo con i poveri, perché così si ha un tesoro in cielo dove i ladri non rubano e la tignola non erode.
Per questo il Figlio di Dio ci avvisa che non si possono servire allo stesso tempo due padroni. Per questo racconta la parabola forse più tremenda del Vangelo nella quale un ricco senza cuore alla fine della vita s’accorge, finalmente ma troppo tardi, del fratello povero che stava fuori della sua porta. L’indifferenza verso la sofferenza altrui lo condanna ormai a una pena senza fine. Le ricchezze avute sono svanite. Un messaggio ai fratelli che sono ancora in vita è inutile, perché se non ascoltano la Legge e i Profeti non ascolteranno nemmeno uno che risorgesse dai morti e perché come dice il proverbio: «Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire!»
A questo proposito i Vangeli apocrifi citati da Origene hanno un testo che commenta molto bene questo tema:
«In un certo vangelo secondo gli Ebrei, se uno vuole accettarlo non come un’autorità, ma come una delucidazione della presente questione, sta scritto: «Un altro ricco gli domandò: “Che cosa debbo fare per vivere?”. Gli rispose: “Uomo, pratica la Legge e i Profeti”. Gli rispose: “L’ho fatto!”. Gli disse: “Va’, vendi tutto quanto possiedi, distribuiscilo ai poveri, poi vieni e seguimi”. Ma il ricco iniziò a grattarsi la testa.
Non gli andava! Il Signore gli disse: “Come puoi dire di aver praticato la Legge e i Profeti? Nella Legge sta scritto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. E molti tuoi fratelli, figli di Abramo sono coperti di cenci e muoiono di fame, mentre la tua casa è piena di molti beni: non ne esce proprio nulla per quelli!”. E rivolto al suo discepolo Simone, che sedeva presso di lui, disse: “Simone, figlio di Giovanni, è più facile che un cammello entri per la cruna di un ago che un ricco nel regno dei cieli”». (Citato in Luigi Moraldi, Vangeli apocrifi, Casale Monferrato (AL), Piemme 1996, p. 175).