Corriamo in fretta verso la passione per stendere in umile prostrazione le nostre persone davanti al Signore che viene

Pietro Lorenzetti, Basilica inferiore San Francesco d’Assisi

Il racconto di Luca presenta l’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme prima della passione che segna la fine del suo ministero e il compimento delle più importanti profezie. Tutti e quattro Evangelisti, riportano il racconto dell’ingresso messianico. L’evangelista ci narra di una “ascesa” innanzitutto nel senso geografico in quanto l’altezza media di Gerusalemme è di 760 metri sopra il livello del mare mentre Gesù viene in questo momento da Gerico che si trova sotto il livello del mare, dove ha ridato la vista a Bartimeo (Mt 20,29; Mc 10,46; Lc 18,35) e ha convertito il ricco Zaccheo (Lc 19,1), realizzando, in favore di entrambi, il suo ministero di Buon Pastore (cfr. Gv 10,11-18). Ora il buon Pastore sale a Gerusalemme con “la pecorella sulle spalle”, preludio di un’altra salita.

Il testo afferma che «Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi». Betfage e Betania sono due villaggi che permettono a Luca di rileggere l’ingresso di Gesù basandosi sulle antiche profezie che alimentavano le attese messianiche: «In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente» (Zc 14,4). Dal confronto con gli altri sinottici appare che l’ingresso a Gerusalemme è avvenuto nel primo giorno della settimana (domenica). Gesù manda avanti due discepoli ai quali dice che avrebbero trovato un asino legato, un puledro, sul quale nessuno era mai salito. Devono scioglierlo e portaglielo; ad un’eventuale domanda circa la loro legittimazione devono rispondere: «Il Signore ne ha di bisogno» (Lc 19,31).

Al lettore di oggi questo dato può sembrare trascurabile, ma per i giudei contemporanei di Gesù è gravido di riferimenti misteriosi, infatti, Gesù rivendica il diritto regale della requisizione di mezzi di trasporto; anche il riferimento al puledro, sul quale nessuno è mai salito, rimanda a un diritto regale. C’è, però un’allusione ancora più importante alla quale solo Matteo e Giovanni sono così espliciti nel far riferimento a Zc 9,9-10: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra». Questo testo allude al fatto che il Messia è un re della pace, della semplicità, un re che spezza gli archi da guerra. Così Gesù rivendica, di fatto un diritto regale; vuole che si comprenda il suo cammino e il suo agire in base alle promesse dell’Antico Testamento, che in lui divengono realtà.

Sull’asinello che viene condotto a Gesù i discepoli gettano i loro mantelli, chiara allusione al Primo libro dei Re nel quale Salomone viene elevato sul trono di Davide suo padre salendo sulla mula regale [«fate montare Salomone, mio figlio, sulla mia mula e fatelo scendere a Ghicon! Ivi il sacerdote con il profeta lo ungano Re» (1,33)]. I pellegrini descritti dal Vangelo si lasciano contagiare dall’entusiasmo dei discepoli; stendono i loro mantelli sulla strada sulla quale egli avanza. Tagliano rami degli alberi e gridano le parole del salmo 118: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che viene, quello del discendente del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli». L’acclamazione “osanna” significa: “vieni in nostro soccorso” o “aiutaci” ma già al tempo di Gesù si era trasformata sempre più in un’acclamazione di giubilo.

Fu proprio Gerusalemme al tempo della nascita di Gesù che vide arrivare i Magi dal lontano Oriente e cercare il Re dei Giudei per offrirgli i loro doni; oggi è la stessa Gerusalemme che si muove al suo incontro. Questi due fatti sono in rapporto ad un unico fine: riconoscere la regalità di Gesù Cristo: il primo da parte dei pagani, il secondo da parte dei Giudei. Mancava che il Figlio di Dio, prima di soffrire la Passione, ricevesse l’uno e l’altro omaggio insieme: e l’iscrizione che presto Pilato farà collocare sul capo del Redentore, Gesù Nazareno, Re dei Giudei, esprimerà quello che era il carattere indispensabile del Messia.

Per questo il Vescovo Andrea di Creta nel tentativo di indicare ai cristiani del suo tempo la necessità di essere discepoli alla sequela di Cristo e folla festante che accoglie al suo arrivo nella città santa, li esorta a correre  «insieme a colui che si affretta verso la passione» in modo che possano così imitare «coloro che gli andarono incontro… per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le loro persone».

Particolare, Il Cristo che alimenta santa Teresa, Monastero san José, Toledo

Sappiamo da san Matteo che il Signore andò a chiudere la giornata a Betania. Le anime che meditarono la vita del Signore si sono soffermate su questa considerazione: Gesù onorato la mattina con solenne trionfo, alla sera è ridotto a cercarsi il nutrimento e il riposo fuori della città che lo aveva accolto con tanti applausi. Nei nostri monasteri Carmelitani esiste una consuetudine che si propone d’offrire a Gesù una riparazione, per l’abbandono in cui fu lasciato dagli abitanti di Gerusalemme. Si presenta una tavola in mezzo al refettorio e vi si serve un pasto; dopo che la comunità ha finito di cenare, quel pasto offerto al Salvatore del mondo, viene distribuito ai poveri, che sono le sue membra. Questa tradizione prende vita dal racconto che Teresa di Gesù ci ha lasciato in una testimonianza di un suo favore spirituale.

Ne riportiamo il testo:

«Incarnazione di Avila (30 Marzo 1572). La domenica delle Palme, appena fatta la comunione, mi trovai in così grande sospensione da non poter neppure inghiottire la Sacra Ostia. Tornata alquanto in me stessa, e avendola ancora in bocca, mi parve che la bocca mi si riempisse di sangue, e che di sangue mi sentissi bagnato il volto e tutta la persona: un sangue caldo, come se nostro Signore l’avesse versato allora allora. Mentre ne assaporavo la straordinaria dolcezza, il Signore mi disse: “Figliola, voglio che il mio sangue ti giovi. Non temere che la mia misericordia ti manchi. Io l’ho versato tra acerbissimi dolori, e tu lo godi fra inenarrabili delizie. Vedi dunque che ti pago bene il banchetto che oggi mi prepari”.

Disse così perché da più di trent’anni, il giorno delle Palme, quando potevo, mi accostavo alla comunione cercando di prepararmi l’anima in modo da offrire ospitalità al Signore, parendomi che gli ebrei fossero stati ben cattivi, quando, dopo averlo accolto con tanto trionfo, lasciarono che andasse a mangiare lontano. Facevo conto di trattenerlo con me, benché non gli apprestassi che un alloggio assai misero, come ora mi accorgo, e mi abbandonavo ad alcune ingenue considerazioni che il Signore doveva gradire.

Questa è una delle visioni che io ritengo più sicure, dalla quale ebbi molto vantaggio per la santa comunione. Prima di questa grazia ero stata – credo per tre giorni – immersa in quella gran pena a cui vado soggetta più o meno fortemente per la lontananza di Dio. Ma in quei giorni la pena era così viva che mi pareva di non poterla più oltre sopportare. Dopo aver molto sofferto, mi accorsi che si era fatto tardi per la cena. Del resto, non ne avevo neppur voglia. Per i miei vomiti mi è di grande incomodo non poter cenare un po’ prima. Tuttavia, facendomi molta forza, mi posi il pane davanti per incoraggiarmi a mangiarlo. Immediatamente mi si presentò il Signore, il quale, spezzato il pane – così almeno mi parve – me lo pose in bocca dicendomi: “Mangia, figliuola, e rassegnati meglio che puoi! Mi dispiace vederti soffrire, ma per ora ti conviene così”.

Mi disparve ogni pena, rimanendone molto consolata, per sembrarmi che il Signore stesse veramente con me. Quest’impressione mi durò tutto il giorno seguente, per cui i miei desideri rimasero, per allora, appagati. Notai quel suo mi dispiace, perché mi pare che non debba sentire alcuna pena» (R 26).

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